martedì 16 dicembre 2025

OGNI FINISH LINE DEVE ESSERE UNA TRASFORMAZIONE - Mark Allen

 

Primo Triathlon Della Storia 25 settembre 1974 Mission Bay San Diego

L'ORIGINE RACCONTATA SU TRIATHLETE DA MARK ALLEN:

"Ogni sport ha una storia che ne racconta le origini. Alcuni nascono da grandi visioni, altri iniziano su un campo o una pista, dove un gruppo di sognatori si ritrova e decide di provare qualcosa di nuovo E il triathlon com’è nato? Era un mercoledì sera.

Non c’erano fuochi d’artificio. Non c’erano sponsor. Non c’era nessun titolo mondiale in palio. C’erano solo una manciata di atleti a Mission Bay, stanchi di fare sempre gli stessi allenamenti, alla ricerca di qualcosa diverso e divertente. Senza saperlo, quegli atleti crearono un movimento destinato a cambiare per sempre lo sport di endurance. Il primo triathlon non era un qualcosa di “raffinato”. Non era nemmeno una “gara” per come la intendiamo oggi. Era un esperimento, meravigliosamente imperfetto e profondamente umano. E forse, è proprio per questo che ha funzionato.

La scintilla

Mercoledì 25 settembre 1974. La San Diego degli anni ’70 era un parco giochi per gli sportivi di endurance: runners, ciclisti, nuotatori, surfisti, bagnini. Il San Diego Track Club era un alveare di energia e ambizione. Quella sera, due suoi membri, Jack Johnston e Don Shanahan, lanciarono un’idea insolita: «E se combinassimo una corsa, una pedalata e una nuotata… tutte nella stessa prova?».

Tutto qui. Niente di profondo. Non pensavano di inventare uno sport. Non immaginavano medaglie olimpiche o campionati del mondo. Stavano solo aprendo la porta a qualcosa di divertente, un po’ strano ma molto stimolante. Parteciparono in 46. Alcuni erano runner in cerca di qualcosa di nuovo. Altri erano nuotatori che non sapevano resistere a una nuova sfida. E poi c’erano dei ciclisti che non avevano nulla da perdere. Ad unirli era la curiosità.

La follia

Il primo triathlon non aveva il format di quello di oggi. Cominciava con la corsa, proseguiva col ciclismo e finiva col nuoto. Non per una questione di strategia o sicurezza, ma semplicemente perché sembrava la soluzione più praticabile.

Le distanze? Variabili. Le transizioni? Inesistenti. Le bici erano appoggiate a recinzioni o direttamente per terra. L’attrezzatura? Diciamo solo che nessuno parlava di aerodinamica. Qualcuno correva a petto nudo. Qualcuno pedalava con dei pantaloncini tagliati a mano. Qualcuno probabilmente nuotava ancora con le calze perché si era dimenticato di averle addosso.

Era caotico. Era disordinato. Era magnifico. Perché ciò che contava non era l’efficienza ma l’esplorazione.

25 settembre 1974, Mission Bay (San Diego) © Mark Allen

L’essenza

Quello che oggi spesso dimentichiamo è che il triathlon non nacque come competizione. Nacque come un gioco. Quei quarantasei atleti non inseguivano podi. Non erano guidati da dati, watt o protocolli di allenamento. Erano guidati da una domanda: «Che succede se mettiamo tutto questo insieme?».

E quella domanda risuona ancora oggi. Quando penso al primo triathlon, immagino la stessa espressione che vedo ai traguardi di tutto il mondo: un mix di esaurimento, orgoglio, incredulità e gioia. È questo ciò che è nato a Mission Bay, non le distanze, non il formato, non le regole. Ma la sensazione.

Da gioco a fenomeno globale

Nessuno, in quella sera del ’74, immaginava a cosa avesse dato il via. Pochi anni dopo, nel 1978, il comandante della Marina USA alle Hawaii John Collins diede un’altra forma all’idea di Jack e Don: combinare tre eventi già esistenti in un’unica prova di ultra-endurance. Le gare erano: la Waikiki Roughwater Swim, la Around-O’ahu Bike Race e la Honolulu Marathon. La formula era semplice: 3 eventi in 1 giorno. Chi arriva per primo si chiamerà Iron Man. Quella fu la seconda scintilla.

Da lì, il fuoco si propagò. Quando entrai nel mondo del triathlon, nei primi anni ’80, lo sport aveva ancora l’innocenza e la ruvidità dei suoi inizi, ma stava già evolvendosi. Si sperimentava in tutto: sistemi di allenamento, strategie nutrizionali, attrezzature provenienti da ogni angolo dello sport. Eppure, il DNA era sempre lo stesso. Il triathlon è nato da curiosità, coraggio e dalla volontà di essere principianti. Questa è l’anima del nostro sport.

© Mark Allen

Il significato del primo triathlon a Mission Bay

Sono stato sulla linea di partenza a Kona molte volte. Alcuni giorni mi sentivo pronto. Altri mi chiedevo come avrei fatto ad arrivare alla bici. Ma sempre, e immancabilmente, mi sentivo legato ai “46 di Mission Bay”. Perché il triathlon non parla di perfezione ma di volontà: di provare, di fallire, di scoprire qualcosa dentro di te che emerge solo sotto pressione.

Quando vidi Julie Moss strisciare nel 1982, fu quel momento a trascinòarmi nello sport. Lei non stava cercando la perfezione. Stava mostrando al mondo lo spirito umano più puro. Ed è lo stesso spirito che animò i fondatori, anche se non ne erano consapevoli.

Il primo triathlon non era un evento raffinato. Nemmeno il mio primo IRONMAN lo era. E neanche il primo di chiunque oggi lo è. Ed è esattamente così che deve essere.

Quattro pilastri da proteggere

Oggi viviamo in un mondo dove il triathlon è diventato adulto: super scarpe, misuratori di potenza, camere di adattamento al calore, nutrizione su misura e tantissimi dati. Tutte innovazioni che ci hanno resi più veloci, più forti, più sicuri, innalzando il limite della performance umana.

Ma se dimentichiamo le radici perdiamo l’anima. Il triathlon è nato grazie a una comunità, alla creatività, alla curiosità e al coraggio. Se vogliamo che questo sport cresca, soprattutto per neofiti, donne, giovani e atleti di ogni provenienza, dobbiamo proteggere questi quattro pilastri.

Ogni linea di partenza deve sembrare un invito. Ogni finish line deve essere una trasformazione. E ogni atleta dovrebbe sentire quella scintilla che i 46 pionieri accesero a Mission Bay.

Perché il primo triathlon conta ancora

Nessuna delle persone schierate quella sera di fine settembre del 1974 sapeva di contribuire a definire un nuovo sport di endurance. Dissero semplicemente sì all’avventura. È per questo che la storia è importante. Perché ogni volta che diciamo sì, ad un’uscita in bici, a una nuotata fredda o a una lunga corsa sotto la pioggia, stiamo onorando le origini di questo sport.

(Mark Allen)"


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