mercoledì 13 luglio 2022

IO NON HO MAI VISTO UNA TAPPA DEL TOUR COME QUELLA DI OGGI


da Bidon:
UNO DI QUEI GIORNI - Come molte delle cose che ci rendono più sopportabile la vita, il pomeriggio di ciclismo più luminoso degli ultimi anni comincia con le sagome affiancate di Wout van Aert e Mathieu van der Poel. Si guardano, si scambiano un cenno d’intesa, poi attaccano: in coppia, al chilometro zero, con la complicità che appartiene solo ai rivali. È un presagio, l’annuncio di una gioia che sarà per tutto il popolo: oggi è uno di quei giorni, oggi si fa la storia.
Ce la ricorderemo, l’undicesima tappa del Tour 2022, per una serie talmente lunga di ragioni che provare a metterle in ordine è impresa persa in partenza. Raramente in questi anni ci era capitato di trovarci di fronte a una corsa capace di condensare in poco più di quattro ore tutto quello che un giorno ci fece innamorare di questo sport, e che nei 151 chilometri tra Albertville e il Col du Granon abbiamo ritrovato sublimato, trasfigurato nella luce bianca delle Alpi e offertoci a piene mani. E ci siamo innamorati un’altra volta, e ci siamo detti che questo nostro tempo è un tempo balordo, è un tempo grigio e spaventoso, però abbiamo pur sempre le stelle in cielo, e le biciclette su per le montagne.
L’undicesima tappa del Tour è la bellezza dei piani quando si realizzano, delle tessere quando s’incastrano e vanno a comporre il disegno – e che disegno. Dalla Jumbo-Visma spiegano che ce l’avevano in mente da mesi questo progetto razionale e folle a un tempo. Razionale perché l’unico modo per scalfire la presunta inattaccabilità di Pogačar era sfruttare la chiara superiorità di squadra e il vantaggio di schierare due leader contro uno solo, e folle perché i due leader si sono lanciati molto prima del previsto nell’esecuzione del loro compito, come incapaci di attendere i tempi proverbiali della goccia che perfora la pietra.
Mancavano ancora 70 chilometri al traguardo, il Col du Télégraphe non era terminato e Benoot pilotava Roglič verso il primo di una serie di attacchi frontali alla maglia gialla. Allunghi insistiti, brevi ma ripetuti, che prevedevano, per il modo e il luogo in cui venivano portati, due soli esiti possibili: l’effettivo indebolimento dell’avversario oppure, più verosimilmente, l’autodistruzione. La sequenza di sette-otto allunghi, senza precedenti a nostra memoria, in cui Roglič e Vingegaard si sono alternati fino alle prime rampe del Galibier, il primo accelerando non appena il tentativo del secondo veniva neutralizzato da Pogačar e viceversa, poggiava infatti sul pilastro principe di ogni impresa: l’accettazione dell’ipotesi del fallimento. Non il rifiuto di esso, ma la realizzazione che talvolta la via migliore per raggiungere un obiettivo è correre il rischio di perdere tutto.
In questa prospettiva di totale indifferenza all’onta della sconfitta viene spontaneo ripensare all’attacco sconsiderato (e fallito) di Van Aert il giorno di Longwy: quella era una specie di prova generale, l’affinamento di un approccio che dal campione belga si è trasferito per osmosi ai suoi compagni di squadra. La Jumbo-Visma è venuta a questo Tour con l’idea di addomesticare l’improbabile e trasformarlo in inevitabile. Prima o poi succede.
L’undicesima tappa del Tour è allora anche il trionfo del ciclismo in quanto sport di squadra. Dell’accelerazione di Benoot quando ha lanciato Roglič la prima volta, ma soprattutto dei suoi innumerevoli recuperi: di tutte le volte che, sfruttando una parentesi di tregua nella zuffa tra i migliori, rientrava su di loro e, nel dubbio, si rimetteva davanti, guardava Soler – il suo equivalente nella compagine rivale – e tirava un altro po’. È la giusta celebrazione di Kruijswijk e Kuss, meno appariscenti di Benoot eppure ugualmente decisivi: un cambio in testa quando occorreva, una ricucitura, soprattutto il peso psicologico del semplice esserci, di far trovare ai capitani volti amici intorno a sé, dell’essere in molti quando si resta in pochi.
È, ancora, la necessaria ricompensa per i due satelliti lanciati nella fuga del mattino e ritrovati puntualmente per strada, ciascuno arruolabile al bisogno: Laporte e soprattutto Van Aert, il giganteggiante Van Aert che nel lungo fondovalle tra il Galibier e l’attacco del Granon si è incaricato di riportare Roglič e mezza Groupama sul gruppo maglia gialla e poi, non pago, di scandire il ritmo fino ai meno dieci dall’arrivo. Ed è il sorriso di Roglič mentre tagliava il traguardo, in ritardo di undici minuti rispetto a Vingegaard ma incapace di nascondere l’intimo godimento per il lavoro svolto e anche per la sua personale rivincita, per quanto parziale e ottenuta per interposta persona.
Veniamo dunque all’interposta persona. Perché nei giorni memorabili del ciclismo, come a fare da indispensabile complemento alla sua essenza comunitaria, si staglia sempre un eroe solitario, colui che ci ricorda che a un certo punto si rimane soli – si deve rimanere soli – e che oggi aveva le fattezze eteree di Jonas Vingegaard, figlio di Claus e Karina ma soprattutto del vento, delle raffiche del nord che l’hanno forgiato quando, ragazzino, immaginò che con la bicicletta avrebbe avuto più fortuna che col calcio: talmente minuto che nessuno gli passava la palla. Ha scoperto che la sua leggerezza poteva essere una benedizione, nel ciclismo. Per due anni ha alternato la bici a un impiego nel porto di Hanstholm, nord della Danimarca, dove inscatolava tutte le mattine filetti di sogliola. È andato a cercarsi le salite, prima in Italia e poi in Francia, vacanze a Bourg-Saint-Maurice per introdursi a Monsieur Galibier, a Madame Alpe d’Huez.
Ha attaccato a quattro chilometri e mezzo dalla cima del Granon, in uno dei tratti meno appariscenti di una salita tutta uguale, tutta brutta e cattiva. Un primo allungo, la mancata risposta di un Pogačar che preferisce rimanere a ruota di Majka, un’idea che si fa strada: la consapevolezza, come ha scritto Daniel Mason parlando di boxe, di chi ha lavorato alla demolizione delle navi e ha imparato a riconoscere il colpo di mazza, all’apparenza innocuo, che precede quello decisivo.
Quello decisivo Vingegaard lo piazza immediatamente dopo, quando la non-replica di Pogačar cessa di essere episodio spurio e si fa principio di crisi. Vingegaard va. Supera di slancio Barguil, ultimo dei fuggitivi del mattino, corridore ridotto a pendolo: ondeggia al suo collo la catenina, ondeggia il filo della radiolina che purtuttavia lo incita, ondeggia il suo capo e ondeggia tutta la sua figura in una sorta di danza disarticolata. Poi è la volta del sorpasso a Quintana e Bardet, i primi a evadere dal gruppetto maglia gialla e altri vincitori di giornata, rispettivamente quinto e secondo della nuova generale.
Poi basta: Vingegaard non ha più nessuno davanti, solo tifosi ai lati, tifosi e grandi massi distribuiti senza particolare criterio sull’erbaglia che domina la parte finale del Granon, questo regno respingente in cui il danese fa il suo ingresso con occhi chiari e labbra sottili, lunga fessura su un volto smunto, netto, come intagliato nel ghiaccio. Non si alza quasi mai su pedali, ma procede efficace. Si prende tappa, maglia, una bella fetta di Tour. Un minuto rifilato a Quintana, più di un minuto a tutti gli altri, addirittura 2 e 51 a Pogačar, superato anche da Thomas, Gaudu e Yates e sprofondato nella mezz’ora più complicata della sua giovane carriera.
Giorni e giorni a chiederci se avesse punti deboli. Se fosse attaccabile, e come e dove. Se non stesse spendendo troppe energie, se la sua squadra fosse davvero all’altezza. Fiumi di parole versati nel tentativo di cavar pronostici dalla mini incertezza sulla Planche des Belles Filles (era dunque un indizio?), di corroborare la speranza che questa corsa avesse ancora qualcosa da dire, che il ciclismo dei prossimi dieci anni avesse qualcosa da opporre a un fenomeno senza punti deboli. E poi in mezza salita si rovescia tutto.
L’undicesima tappa del Tour è allora soprattutto la caduta dell’eroe: l’umanità si impadronisce di un volto per la prima volta sofferente, il mantello dorato di invincibilità rimpiazzato da una maglia gialla sottile, sventolante, sempre meno ancorata a una carne che scopriamo umana, e se da un lato ci conforta il disvelamento del limite (sempre ci affratella l’inatteso insorgere delle difficoltà), dall’altro un poco ci scuote l’incantesimo spezzato, l’evaporare del miraggio della perfezione, del mito dell’atleta senza punti deboli, superiore a ogni avversità.
Ma è una malinconia passeggera, portata via dalle parole che Pogačar scandisce poco dopo aver ritrovato il sorriso ed essersi complimentato con Vingegaard, annunciando che il Tour non è finito, che faremmo bene a tenere lo spirito saldo, pronti a nuovi pomeriggi nella centrifuga: «Domani attaccherò».
Testo: Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc



 

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